Il sole siciliano si rifletteva sulle pietraie bianche e arse del fianco delle colline. Uno stretto nastro d’asfalto consunto si contorceva obbediente agli avvallamenti del terreno fino a scomparire nel bagliore dell’orizzonte di un pomeriggio d’agosto. Qua e là, chiazze di vegetazione sopravvissuta erano la meta di gruppi di pecore indisciplinate che correvano a brucare fameliche il poco che il sole aveva risparmiato. Il rombo del motore della grossa Mercedes stonava sulla strada normalmente deserta ed ebbe l’effetto di far schizzare le pecore in tutte le direzioni come proiettili lanosi. Il conducente ne evitò due con abili sterzate e una terza la prese di striscio ma solo per ritrovarsi faccia a faccia con un ariete, grosso e arrogante, convinto di sfrangere la vettura con la forza delle sue grosse corna ricurve. Lo schianto fu tremendo e proiettò l’animale in aria insieme a brandelli di carne e pezzi di corna, in una nube rosso sangue. La macchina non ebbe sorte migliore, la velocità e la massa, sua e dell’ariete, distrussero completamente il frontale mentre l’airbag esplodeva sul viso del conducente. L’auto, ormai fuori controllo, si avviò lungo il pendio pietroso e solo il naturale profilo del terreno che dolcemente tornava pianeggiante impedì alla vettura di schiantarsi rovinosamente o peggio di cappottare. Rallentò invece gradualmente grazie anche ai massi che numerosi ne frenavano la corsa mentre distruggevano le ruote e il pianale. Non senza sforzo il conducente, una volta fermo, riuscì ad aprire la portiera deformata, uscire dalla macchina e rendersi conto del totale disfacimento del mezzo. Lo spettacolo era ancora più penoso per il sangue nebulizzato che decorava il frontale e il parabrezza sfondato. L’uomo si guardò intorno cercando qualcosa o qualcuno che potesse essergli d’aiuto. Tutto quello che vide erano pietre e pecore belanti intente a fissarlo con sguardi di severa riprovazione.
– Curnutu abbiviratu, m’ammazzasti ‘u muntone!
Il Conducente fu colto di sorpresa da quelle parole dal tono ostile di cui non aveva inteso il significato.
Alle sue spalle si era materializzato un vecchio con la faccia rugosa e la barba bianca incolta, un pantalone largo e sgualcito e un maglione costellato di buchi utili senz’altro per mitigare il gran caldo. In testa aveva un largo cappello di paglia e in mano un grosso bastone nodoso e ricurvo. Al suo fianco un grosso cane bianco dal pelo lungo e cisposo emanava un olezzo potente. Più indietro se ne stava un ragazzo biondo con gli occhi azzurri che sorrideva, evidentemente divertito dallo spettacolo a cui aveva appena assistito.
– Buongiorno, avete visto cosa è accaduto? Sapete di chi sono quelle dannate pecore?
– Ca come di chi sugnu li pecuri? Mie sugnu e tu m’ammazzasti lu masculu, Vastasu!
– Mi perdoni ma non riesco a comprendere cosa dice!
Prontamente intervenne il ragazzo;
– Il nonno dice che le pecore sono le sue e lei gli ha appena ucciso l’ariete, il maschio.
– E sarebbe colpa mia? Ci ho rimesso la macchina e stavo pure per restarci secco. Mi spiega cosa ci fanno le vostre dannate pecore sulla carreggiata dove passano le macchine?
– Li mi pecuri acca’ vegnunu pi mangiari! Mu’ dicesse vossia che ci fa ‘nta sta’ strata ca ‘un ci passa mai nuddu!
– Le ripeto se parla così io non la capisco!
– Augusto attraduci a stu’ milanese ca ‘un ci cape nuddu!
– Il nonno dice che le pecore qui vengono a pascolare. È stato il rumore della sua auto a spaventarle e farle correre in strada. Di solito da qui macchine non ne passano.
– Vabbè ho capito lasciamo perdere, adesso chiamo la Polizia Stradale e ve la vedrete con loro. Servirà anche un carroattrezzi!
– Nonsì, ‘un si puo’ fare!
– Qui non c’è campo per i cellulari. Non può chiamare.
Spiegò svelto Augusto;
– Diamine e come faccio ad arrivare in città?
– Hai aspittari a Binnu ca ci viene a pigghiare co ‘u camìon’!
Spiegò pronto il vecchio altrettanto prontamente tradotto:
– Dobbiamo aspettare Bernardo che domani verrà con il camion per riportare le pecore in fattoria.
– Come sarebbe domani? Ma dove siamo? Nel deserto? Possibile non ci sia modo di chiamare qualcuno e che da qui non passi nessuno se non questo “Binnu” domani? E io come faccio ? Devo essere a Siracusa per un affare importante e poi dove passerò la notte? C’è almeno un albergo, una locanda da queste parti?
– Chiustu è ‘mpastatu cu sonnu!
– Calma nonno – si intromise Augusto – no, non c’è nessuna locanda da queste parti. Ci siamo solo noi e le nostre pecore. Ma lei come ha fatto a finire su questa strada se deve andare a Siracusa?
– Non saprei! Sono partito da Agrigento e ho seguito il navigatore fino a trovarmi qui in mezzo al nulla.
– Adesso capisco! Il navigatore non prende bene da queste parti, non bisogna fidarsi.
– Dannazione a me e quando ho voluto scendere in questa dannata isola. Possibile non funzioni nulla? Un posto buono solo per le pecore e per prenderci il sole. Mi gh’ha el dun de Dio de capì nagott!
– Arripigghiati ca inculu ‘u pigghi!
lo redarguì il vecchio senza bisogno di traduzione ma intuendo dal tono l’imprecazione in meneghino.
Stavano calando le prime ombre della sera e i due pastori, nonno e nipote, finito di rinchiudere il gregge in un recinto di assi di legno, fecero entrare l’automobilista appiedato in una piccola casupola di pietra con il tetto fatto di legno e fascine di fieno che era la loro abitazione nel periodo di transumanza.
Il fuoco crepitava nel camino ricavato nello spessore di una delle pareti di pietra. Sulla brace, tirata sul pavimento di terra battuta, in un calderone nero di fuliggine, bollivano pezzi del montone incidentato. Il vecchio ci aveva aggiunto copiose manciate di erbe, cipolla, rosmarino, carote, timo e tanto altro. L’odore della carne selvatica in cottura impregnava l’aria brutalizzando l’olfatto dell’ospite con afrori primordiali di pecora bollita. L’ambiente era illuminato solo da due grosse lampade ad olio appese alle travi del soffitto che, oscillando, svelavano il frugale arredo interno: due grossi sacchi a mo’ di letto buttati per terra, ripieni di frasche che spuntavano qua’ e là dai buchi del tessuto consunto e un tavolo basso e tozzo ricavato da una vecchia porta a cui erano stati aggiunti quattro piedi sbilenchi per dargli una postura quasi orizzontale. Intorno al tavolo alcuni ceppi di legno ritorti facevano da sgabelli. L’ospite, suo malgrado, si accomodò su uno dei ceppi ormai certo che l’incidente avesse aperto un varco nello spazio-tempo facendolo tornare indietro nella Sicilia di almeno cinquant’anni prima. Un piatto di legno, ricolmo di brodo scuro da cui spuntavano pezzi di carne attaccati a ossa spezzate, gli fu posto davanti senza tanti convenevoli. I suoi due commensali bevevano avidamente il brodo con i cucchiai di legno per poi afferrare con le mani i pezzi di carne stracotta che si staccava facilmente dalle ossa appena la si addentava. Provò a fare lo stesso scoprendo che il brodo, speziato e concentrato, aveva un sapore delizioso e la carne tenera e succosa si scioglieva in bocca saporitissima. Ne fu sinceramente rinfrancato!
– Non credevo si potesse vivere ancora in questo modo! Sembra di essere tornati indietro nel tempo.
– Pecché come altro vulisse vivere Lei?
– Sono abituato a qualche comodità in più, un uomo non può certo vivere come cento anni fa!
– Ma chi dici? L’omo na’ bestia è! Ave sulo bisogno ‘i mangiari, ‘i calore e ‘i futtere. ‘U riesto ‘un serve!.
– Mi perdoni, questi sono solo i bisogni primari, l’essere umano ha bisogno di molto altro per vivere bene.
– Minchiate! Abbonebbone’ morsi riccu! Io aiu vissuto sempre comme nu signuri picche’ aiu mangiatu, durmitu e futtutu a sazietà!
Intervenne pronto il giovane Augusto conscio che l’ospite non avesse afferrato le parole del vecchio.
– Il nonno dice che bene che vada finirai per morire ricco ma che lui invece, senza essere ricco, ha sempre vissuto come un signore: ha mangiato, dormito al caldo e diciamo così goduto di piacevoli compagnie. Portando le pecore al pascolo si fanno sempre incontri interessanti, ora come ai tempi suoi.
– Ma oggi ci possiamo permettere molto di più: case con tutte le comodità, macchine, vestiti, cibi raffinati, viaggi, design, arte.
– Bedda Maaatri! Allura Tu ‘nente c’accapisti dà vita!
– Che significa? Io semplicemente cerco di vivere nel miglior modo possibile.
– E chi ti manca? Mangiari hai mangiato, puoi durmire e goderti ‘u sole e ‘u mari. A nuatri ‘u pitittu n’ha fattu sempri acìtu!
L’intervento di Augusto era oltremodo necessario:
– Nonno vuole significare che in realtà non ci manca niente e il desiderio di avere più dello stretto necessario ci fa’ stare male, ci fa’ acido.
– Io invece credo che l’uomo debba sempre cercare di migliorare il suo tenore di vita perché è stata questa la chiave del progresso e del successo della razza umana.
– Progresso, successo? Ma chi minchia dici? Unne’ stu’ successo? Unne’ stu’ progresso? ‘A vo’ sapiri a verità? A verità è ca l’omo è na’ bestia ma è nà bestia stupida! A’ chiù stupida supra la faccia de la terra!
– Ma che assurdità! E la scienza, la tecnologia? L’uomo chiaramente è l’essere più intelligente!
– Cu tutta sta scienza e sta tecnologia l’omo vive peggio di tutti l’autri bestie du criato. L’acconusci tu na bestia che faci la guerra all’ utri bestie?
– Credo di non avere capito!
– Attraduci Augusto Ca u’ milanese accapisci minchi pi lanterni.
– Nonno è convinto che il livello raggiunto dalla scienza e dalla tecnologia sono la dimostrazione di quanto l’uomo in realtà sia un animale fondamentalmente stupido. Altrimenti avrebbe usato questi strumenti affinché tutti potessero vivere serenamente invece di arricchire pochi, oltre ogni misura, e lasciare i più nella miseria e nell’indigenza. Lo dimostra il fatto che sia l’unico animale che fa la guerra ai suoi simili per accaparrarsi più di quello di cui ha bisogno per vivere.
E il vecchio, quasi a rimarcare le parole del nipote;
– Nun c’è peju a lu munnu di l’avidizza! I’ntra a cascia di l’avaru sta curcatu lu demoniu!
Per fortuna Augusto era pronto a tradurre:
– Il peggior difetto dell’uomo è l’avidità e, per dirla con le parole del nonno, l’avido, l’avaro, finisce steso in una cassa insieme al demonio. Sta a significare che l’uomo è l’unica bestia al mondo affetta da avidità e questo, per il nonno, è sintomo di grande stupidità.
– Milanese, l’hai mai vistu nu lione che ammazza vinti gazzelle pi mangiarini una? N’ammazza una sola e poi dorme e futte ed è felice accussì!
– Un leone non ammazza dieci gazzelle – tradusse pronto Augusto – ma uccide quanto basta per sfamarsi e poi si dedica a godere di quello che gli offre la natura, in un equilibrio perfetto. È così che il nonno ha sempre vissuto, in comunione con la natura e, pur non possedendo nulla, è la persona più felice che conosco.
– Bisognerebbe capire cosa significhi essere felice per lui?
– Adesso glielo chiedo. ‘O nonnu, p’ tia cos’è ‘a felicità?
– P’ mia? Tu si’ a mia felicità, quannù ca’ vieni e passamo tanto tempo assieme a guardare li pecuri sottu u suli o a camminare fino che arrivamu a lu mare. A nonna mi fà filice, pure se qualche volta mi scassa la minchia, e pure stu’ milanese oggi m’ha fatto felice, pure se m’ammazzau lu muntone. Mangiammo insieme, passeremo insieme a nuttata e quannù c’arrisbigliamo talieremo lu stissu cielu. Oramai amici addivintammù. Io accussì mi sento felice!
– Credo di comprendere il suo punto di vista e lo apprezzo ma l’animo umano ha anche altre necessità per sentirsi davvero realizzato e felice: l’arte, la musica, le comodità della vita moderna.
– Nun diri minchiate? T’haiu dittu che l’uomo hai sulu bisogno ì mangiari, ì caluri e i futtiri. Ma ‘un si futte sulu cu l’arnese ca ti penne tra li cosce. I meglio futtute si fanno cu ‘u cirivìeddu. Io sugnu ottantino e la minchia orami m’asserve sulu pi pisciare ma continuo a ficcare tutti i jouni.
Augusto si apprestava imbarazzato a tradurre ma l’ospite gli fece cenno di fermarsi
– Questa volta credo di avere capito molto bene quello che ha detto il nonno. Ma come si può godere della vita in un posto come questo, isolato, lontano da tutto e senza alcuna comodità?
– Iu quannu guardu ‘u mari, ‘a terra mia, ì mi pecuri, mio nipote, sento chillù cà sintia da giovane quando taliavo na bedda picciotta spugliata, nù bellu sticchu e ci godo assai. P’ mia è come ficcare! Però mi scasserei la minchia si avissi a testa cà avi tu milanese beddù.
– E perché che testa avrei io?
– A testa di uno che pensa sempre ai piccioli, au lavoro, ai problemi pe’ mantiniri na casa grande co tutte le comodità, na bedda machina e magari nà fimmina cà un si sazia mai!
– Ammetto che il lavoro e le responsabilità della mia posizione mi portano via tanto tempo e a volte non ne ho neanche per una vacanza, ma se non lo facessi non avrei le risorse per potere vivere agiatamente, comprarmi magari un bel quadro e poterne godere nella mia bella casa.
– Allura ‘un vuoi capire! Si ‘un vivi come Cristo comanda, si a tu testa ‘un è libera e sincera, quando t’affrunti a nu beddu quadro tu lu talii ma ‘un senti nuddu. E allora chi ù talii a fare?
Il discorso fu interrotto da un colpo secco sulla porta di legno dell’ingresso del casotto.
– Pi stasera ci simu giucati Augusto compà!
– Perché chi bussa alla porta?
– Se agguardi fori ‘un c’è nisciuno ma quando la petra batte supra la porta assignifica ca a fimmana è in calore!
– Quindi si tratta di un richiamo?
– Ca certo, quannù Augusto mi viè a trovare i fimminelle qua intorno su lo chiamano. E iddù ‘un si fa chiamare du volte! Vai Aug’! ‘N vrimu cchiu’ tardi!
– Quindi Augusto non vive sempre con lei?
– A finisci cu stu Lei! T’haiu dittu che addiventammù amici. Augusto a Siracusa vive. Studiò e si laureò. Ma ‘un riesce a stare luntano dalla campagna e appena è possibile viene accà e m’aiuta co li pecuri.
– E a quanto pare passa pure delle belle serate.
– Cà certo, nipote a mia è! I fimmine sempre caure sugnu e si fà fatica a starigli dietro!
L’indomani, dopo una bella dormita, riscaldati dal camino sempre acceso e dal pagliericcio caldo , furono svegliati all’alba dal rumore di un camion che si era fermato in prossimità del casotto.
– Arrivò Binnu! Stù curnutu sempre troppo presto acchiana. A tia milanese, ti piaceva stare ancora nu poco qua, ai tempi antichi, è vero?
– Ma no! Ho dato fin troppo fastidio è ora che tolga il disturbo.
– Ti pari ca ‘un ti vìu, ma a tìa taliu. Durmisti comm’ a nu picciriddu stanotte e ti svegliasti cà surridevi.
– In effetti ho dormito benissimo e mi sono scordato di tutto: preoccupazioni, affari e perfino dell’auto distrutta.
– Vuoi sapere picchì? Arrivasti che eri nà bestia stupida e te ne parti chiù ‘ntelligente!
– Mi sa che hai ragione, adesso riesco perfino a capire quello che mi dici nel tuo dialetto.
– Chi beddu spicchiu addivintasti. Augusto! – disse rivolto al nipote da poco rientrato dalla nottata passata fuori- si ci fai conoscere pure qualichi amica tò ‘u milanese ‘un ci lascia cchiù!
Più tardi, dopo avere caricato le pecore sul grosso camion, il vecchio, il nipote e l’automobilista se ne stavano stretti nella cabina accanto a Binnu che guidava. L’asfalto della strada aveva visto tempi migliori e il camion sobbalzava tra pietre e buche. L’automobilista sentiva distintamente l’odore acre che emanava dai corpi sudati degli altri passeggeri mischiato all’odore delle pecore ammassate dietro. Inaspettatamente trovava quell’afrore quasi piacevole. Sapeva di antico, di amicizia, di condivisione e provò ad annusarsi alla ricerca dello stesso odore. Dopo circa un’ora di cammino il vecchio fece cenno a Binnu di fermarsi in uno slargo subito dopo un largo curvone in salita. Alla fine dello slargo, superata una parete di roccia, si apriva un panorama mozzafiato. Il mare era apparso improvviso, azzurro, luccicante e infinito. Tutti scesero dal camion respirando a pieni polmoni la brezza marina che rinfrescava e accarezzava la pelle mentre gli occhi si perdevano oltre l’orizzonte blu.
– E’ meraviglioso – disse l’automobilista – non trovo le parole per descrivere una tale bellezza!
– Testa ca ‘un parla si chiama cucuzza!
Tutti risero alla battuta, anche l’automobilista che in realtà aveva inteso solo l’affetto e l’ironia con cui il vecchio aveva pronunciato quelle parole.
Ma il vecchio non aveva finito:
– Allora amicu mio, talia ù mari! Accapisci cam’ora chi significa ficcare cu a testa? Tutto chiustu e mio, tutti qua mi vogghiunu bene e io vogghiu bene a loro. A mia ‘un mi serve altro! E solo si godi a taliare stù mari sai gòdere pure si talii nù bellu quadro!
– Si, adesso capisco!
– E allura capisci puri picchì l’Omo, purtroppissimamente, è na’ bestia stupida?